Ulisse, eroe mediterraneo dell’intelligenza
Ἄνδρα μοι ἔννεπε, Μοῦσα, πολύτροπον, ὃς μάλα πολλὰ
πλάγχθη, ἐπεὶ Τροίης ἱερὸν πτολίεθρον ἔπερσεν·
πολλῶν δ ̓ ἀνθρώπων ἴδεν ἄστεα καὶ νόον ἔγνω,
πολλὰ δ ̓ ὅ γ ̓ ἐν πόντῳ πάθεν ἄλγεα ὃν κατὰ θυμόν,
ἀρνύμενος ἥν τε ψυχὴν καὶ νόστον ἑταίρων.
Dell’uomo, dimmi, o Musa, molto versatile, che molte volte fu
sbattuto fuori rotta, dopo che di Troia la sacra rocca distrusse,
e di molti uomini le città vide e l’intendimento conobbe e molti
patimenti, lui, sul mare ebbe a soffrire, nell’animo suo,
cercando salvezza di vita e il ritorno per sé e i compagni.
(Traduzione di Vincenzo Di Benedetto e Pierangelo Fabrini)
Il segreto dell’immortalità di Ulisse, a cui egli rinuncia all’inizio del racconto pur di ritornare a Itaca, è racchiuso in quei celebri cinque versi con cui si apre l’Odissea. Il poliedrico personaggio, riletto e reinterpretato nel corso dei secoli, è destinato a rinnovarsi nel tempo poiché porta con sé un sempre vivo anelito verso la conoscenza, prerogativa umana vissuta pienamente solo attraverso il viaggio fisico o mentale e il confronto costante con la diversità. Ulisse “politropo” è l’eroe del viaggio, ma anche della ‘nostalgia’ e del ritorno, sentimenti contrastanti, che convivono in tutti i grandi viaggiatori. Ulisse è colui che ha sperimentato, per mare, il dolore, la perdita e, allo stesso tempo, l’incontro con l’altro e il significato autentico dell’ospitalità, così cara ai Greci. Ulisse, navigando nel Mediterraneo, sulle cui sponde dialogano e si completano culture diverse – superfluo cercare analogie e differenze, meglio soffermarsi sul concetto di ricerca verso cui tutte tendono – è diventato l’emblema dell’uomo che, nell’affrontare con intelligenza le difficoltà, farà esperienza e conoscerà infine il mondo: “di molti uomini vide le città e conobbe il pensiero”. L’esule Dante, pur ponendolo all’Inferno tra i ‘consiglieri frodi’, dimostra una forte predilezione per lui, forse perché espressione di quel libero arbitrio troppo spesso arginato da un altrettanto profondo senso del limite, in particolare in ambito conoscitivo, efficacemente sintetizzato nel monito ‘conosci te stesso’, costitutivo del pensiero greco e di quello cristiano, con differenti declinazioni. Il nostro, oltrepassando le Colonne d’Ercole, oserà liberare l’uomo da un destino che appare ineluttabile, andare oltre, decidere, errando, della sua sorte.
Per queste e altre ragioni, Moni Ovadia ha scelto di riflettere sull’Odisseo dantesco.
All’ombra di un ultracentenario castagno dell’Ecomuseo, lo abbiamo incontrato poco prima che andasse in scena e con la passione che lo caratterizza ha risposto ad alcune nostre domande. Segue una sintesi dell’incontro nella quale in italico vengono riportate le sue parole; un estratto dell’intervista è disponibile sul canale youtube dell’Ente di gestione delle Aree protette dell’Appennino piemontese.
Dante – Il coraggio di assumere il proprio destino
Incominciamo il nostro colloquio soffermandoci sul titolo. Moni Ovadia ci dice che con questa scelta ha voluto evidenziare il legame di Dante con Odisseo e, attraverso il personaggio omerico, riflettere sull’innata propensione del poeta, voce dell’umanità, a varcare il limite alla scoperta dell’ignoto e dell’altro. Dante mostra da subito un interesse fortissimo nei confronti dell’eroe greco verso il quale sente di avere “molto in comune”: “ten priego e ripriego, che ‘l priego vaglia mille, (…) vedi che del disio ver’ lei mi piego” chiederà insistentemente alla sua guida Virgilio, trovandosi di fronte alla fiamma cornuta. I punti di contatto tra i due, da cui muove questo desiderio, possono essere riassunti nei concetti di esule, come detentore di una condizione privilegiata di indagine e di conoscenza del mondo e di “hybris”, la tracotanza nei confronti della divinità, qui tuttavia intesa piuttosto come coraggioso e necessario gesto di rottura. Odisseo è un esule per volontà degli dei – si dice – e quindi vaga, prima di poter ritornare alla sua petrosa Itaca, anni e anni, però sono quegli anni, in cui è esule, che fanno di lui un personaggio degno di essere espresso nella letteratura: è il travaglio che fa il poema. Odisseo è colui che sfida se stesso, sfida il mondo, conosce, viene messo in scacco da nuove situazioni, supera con degli straordinari cimenti lo scacco. Solo dopo lunghe peregrinazioni tornerà a casa. Moni Ovadia insiste nel sottolineare come ogni essere umano abbia diritto a una casa dove rigenerare le sue energie, una casa, non una nazione, e cita Emil Cioran: “Un uomo che si rispetti non ha una patria. Una patria è una colla… La mia patria è lì dov’è la mia casa”. Anche Dante è prima uno sradicato da Firenze, per ragioni politiche, e poi diventa un esule e acquisisce l’esilio come condizione e fa parte per se stesso, smette di cadere nella trappola della fazione. Dante avrebbe potuto andare da qualche potente, rivendicare vendetta contro Firenze e invece accetta le conseguenze dell’essere esule. “Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale”. Esci dalla tua dimensione, perdi delle cose che ti sono tanto care, però conosci, incontri, vedi, capisci, riconosci te stesso perché l’altro è termine di confronto.
L’altro elemento comune, l’“hybris”, di cui pecca Ulisse oltrepassando le Colonne d’Ercole, consiste in Dante nell’aver fatto un viaggio nel regno dei morti da vivo. In qualche modo entrambi diventano eroi moderni perché superano con coraggio i limiti e i dogmi accettati dai più. Odisseo ha il coraggio di andare oltre ciò che gli toccherebbe. L’uomo si cimenta, arriva sulla riva di un mare, c’è una sconfinata massa davanti a lui, ma invece di essere ciò che lo ferma, è ciò che lo invita ad andare verso l’altrove e verso l’altro.
Un percorso insito nel genere umano da sempre pronto a infrangere le regole stabilite anche in ambito religioso. Se volessimo vedere la storia dell’uomo in rapporto con l’Assoluto o con il supposto Assoluto, l’uomo non ha fatto che varcare ogni soglia imposta: è per questo che certe accanite battaglie dei religiosi più intransigenti sono destinate al fallimento perché è natura dell’essere umano varcare ogni limite; anche l’eutanasia arriverà, come i matrimoni gay arrivano, perché è proprio caratteristica dell’essere umano.
D’altro canto la ricerca religiosa non può che fondarsi sul dubbio e sull’incertezza, affrontare il rischio per conoscersi, per rimettere in questione chi vende e diffonde certezze assolute ed è in realtà nemico della vita. Teilhard de Chardin, un grandissimo teologo cattolico, ha detto: “C’è un solo modo di credere in Dio, è quello di dubitarne” cioè la relazione con il Divino è una relazione straordinaria se è una continua ricerca. La dimensione del Divino è quella di essere sempre oltre, altrimenti è un idolo inanimato che tu ti fai per tuo comodo, come i vecchi idoli d’oro o di pietra.
Ulisse eroe mediterraneo dell’intelligenza a confronto con le altre culture
Ulisse, secondo Marc Chagall, è eroe mediterraneo dell’intelligenza; egli si muove in quel Mare simbolo della ricerca della saggezza: saggezza religiosa della cultura ebraica da un lato e saggezza filosofica della cultura greca dall’altro. L’artista, che come ricordato da Moni Ovadia con le sue opere ha portato lo shtetl (il piccolo villaggio ebraico della Russia zarista) nell’Universo, ha cercato in numerose occasioni, in un’Europa segnata dalla seconda guerra mondiale, una sintesi tra civiltà ebraica-yiddish e civiltà classica-cristiana di cui Ulisse diventa emblema. Da qui siamo ripartiti con una seconda riflessione sulla modernità di Ulisse e sull’incontro tra culture diverse.
Odisseo di tutti gli eroi dell’Iliade è l’unico che “usa il cervello”. Odisseo è anche il mediatore, quello che compone le controversie e i conflitti e per questo è lui che fa il viaggio perché è in grado di capirne il senso. Odisseo è uomo che fa esperienza e sa raccontarla: è così che nasce la cultura dell’uomo. L’eroe omerico non finirà di viaggiare con l’Odissea, ma continuerà a farlo anche nel tempo grazie a molti scrittori e poeti: Dante, Konstantinos Kavafis, Nikos Kazantzakis. Ed è Kavafis con la sua poesia “Itaca”, che Moni Ovadia commenta in alcuni passaggi, a consegnarci il senso ultimo del viaggio così diverso dalle spedizioni dei famosi esploratori occidentali interessati solo a conquistare e dominare su gli altri popoli e sulla natura. Ti metterai in cammino per Itaca, augurati che sia lungo il cammino. Non affrettare il cammino, fai in modo di arrivare vecchio a Itaca, di aver affrontato cose, conosciuto, studiato con i sapienti e se troverai Itaca piccola, povera, pietrosa non per questo Itaca ti avrà deluso: senza di lei non ti saresti messo in viaggio, che cosa vuoi di più? E ricco di tutta la sapienza che avrai accumulato, finalmente tu capirai cosa vogliono dire le ‘Itache’: sono il motore del viaggio che è il senso della vita.
La riflessione prosegue con l’ “Ulisse” di Joyce e il viaggio di Abramo verso la Terra Promessa. Nel romanzo, considerato opera fondamentale della letteratura mondiale, con un’operazione straordinaria si saldano i due grandi viaggi che fondano la civiltà occidentale: Odisseo “cambia pelle” e diventa l’ebreo Leopold Bloom. L’Odissea di Joyce si svolge in un solo giorno durante il quale il protagonista affronta un viaggio di conoscenza interiore, per certi versi vicino a quella del grande patriarca a cui viene chiesto di abbandonare tutte le sue certezze.
Abramo non viaggia verso la propria terra, ma esce dalla propria terra. Le prime parole del capitolo “Lech Lechà – Vai per te”, dicono: “Alzati e vai per te, vattene dalla tua terra, vattene da casa di tuo padre, vattene dalla tua tribù” cioè tutto quello che è più sacro lascialo per seguire questa voce, per seguire questa Divinità ineffabile. Nel viaggio, nell’esilio avverranno le cose più straordinarie: la Torah verrà data nel deserto, non nella Terra di Israele, il Talmud nell’esilio babilonese, la Qabbalah nell’esilio bimillenario.
Lo status di esule che non ha una terra, ma che vive in essa da ospite, è un altro tema caro a Moni Ovadia. Egli cita il grande filosofo Franz Rosenzweig: “Nessuno ha diritto alla proprietà della terra” per poi passare ad un breve commento della Torah. Nell’annuncio del Giubileo viene spiegato qual è il senso della Terra Promessa: “La terra non verrà venduta in perpetuità perché la terra è mia” quindi la Terra Promessa è la Terra di Dio, non è proprietà degli uomini, agli uomini è data per dimostrare che si può vivere in una Terra senza cadere nell’idolatria del nazionalismo, il nazionalismo è l’idolatria della Terra. L’annuncio prosegue dicendo: “Tu ebreo vivrai gher toshav, come straniero residente” questo è il modo di vivere in quella Terra insieme allo straniero che godrà dei tuoi stessi statuti. E poi “Ricordati che fosti straniero in Terra d’Egitto” , ti ho fatto fare quell’esperienza per capire. Moni Ovadia insiste sull’espressione “voi tutti davanti a me siete stranieri soggiornanti”, a significare che con Dio si sta da stranieri fra gli stranieri altrimenti non è Terra Promessa. Questo è l’equivoco del sionismo infatti si vede dove sta andando a finire.
A questa visione multiculturale fanno da cornice le rive del Mediterraneo, da sempre luogo privilegiato di scambi di merci e di idee, dove mondo greco ed ebraico si sono per la prima volta confrontati.
I due pensieri si incontrano nel viaggio per sapere, la sapienzialità ebraica è la conoscenza etica, nella grecità c’è una priorità della conoscenza filosofica. Emmanuel Levinas, grandissimo interprete, ermeneuta dell’ebraismo e filosofo tra i più grandi del ‘900, dice: “La filosofia parla greco, l’etica parla ebraico”. Queste due cose solo nel Mediterraneo possono incontrarsi. Il Mediterraneo è luogo magico: lì ha navigato Odisseo, lì ha pensato Dante, lì gli ebrei della Spagna, poi cacciati, hanno fatto germinare una straordinaria sapienzialità che ha influenzato tutto l’Occidente.
Il valore dell’alterità
Riprendendo una considerazione fatta in apertura sulla necessità dell’uomo di andare all’incontro con l’altrove e quindi dell’altro da sé per conoscere e per formare la sua identità, lontano dal localista o dal nazionalista che vorrebbe sempre stare chiuso nella sua dimensione e che vede l’altrove e l’altro come ostilità, ci siamo soffermati sul ruolo degli ecomusei. Gli ecomusei nacquero negli anni ’70 con un grande sogno: dare voce alle piccole comunità, promuovere il principio secondo cui non esistono culture o popoli migliori di altri, valorizzare la specificità e la diversità culturale e naturale. In un mondo in cui l’idea di diversità però assume spesso il carattere di difesa dall’altro o, ancor peggio, di presunzione di superiorità di alcuni, in un mondo in cui si alzano muri e barriere, abbiamo chiesto a Moni Ovadia di condividere alcune riflessioni in merito.
Il rapporto intimo degli omologhi cioè l’endogamia tribale pian piano produce malattia, indebolimento. E’ l’altro che permette di costruire società, comunità; è l’altro da noi. E anzi, l’altro è il motore di questo connubio.
Moni Ovadia prosegue dicendo che Levinas propone un’originale traduzione del comandamento del Levitico 18-19, noto come “e amerai il prossimo tuo come te stesso”. Secondo la sua interpretazione, che tiene conto dell’assenza del verbo essere al presente nella lingua ebraica, il versetto diventa “amerai per il prossimo tuo, è come te stesso” cioè solo nel momento in cui tu accogli l’altro nella pienezza della sua dignità, della sua alterità, lo riconosci, lo accogli e lo benedici, in quel momento tu acquisti la tua identità, diventi te stesso; per cui è il “tu” il motore del movimento che crea una società di fratellanza, di pace e di quello che viene chiamato amore. Senza l’incontro con l’altro non ci sarebbe stato sviluppo della civiltà, tutta la storia umana è una storia di migrazioni. I primi uomini dal centro dell’Africa si sono mossi per curiosità, per cercare migliori condizioni, miglior clima, cibo, per vedere. L’Ungheria come si è formata? A dirla a Orbán, sono venuti gli Unni dagli altipiani gelati dell’Asia e poi i Magiari cioè arriva questo incontro e germina una popolazione che si sente coesa, ma in realtà tutti veniamo da altrove. Il volere respingere è una forma prima che di malvagità o di insensibilità, di stupidità perché questo crea le società.
D’altro canto, la tradizione ebraica pone al centro della sua indagine il tema dell’ “altro” che diventa misura per separare dal resto della creazione, ma nello stesso tempo per definire, l’Uomo.
L’intuizione dei biblisti è stata grandiosa perché il concetto del Divino si forma per affermare che c’è un’alterità assoluta e che quindi il rapporto con quella alterità dev’essere il paradigma di ogni rapporto cioè tu ami il Divino quando ami il tuo prossimo, Dio è lì presente e lo stesso vale per la natura e per gli animali: sono un’alterità con la quale noi dobbiamo stabilire una relazione.
Quest’ultima, per Moni Ovadia, dà vita e produce possibilità infinite. Purtroppo però troppo spesso ci limitiamo ad assumere il ruolo di colonizzatori del mondo, ad alterare equilibri che si sono prodotti in milioni di anni, come nel caso delle foreste pluviali, a distruggere una biodiversità che potrebbe generare conoscenze incredibili.
Una riflessione sull’alterità che coinvolge quindi anche il rapporto uomo-natura: in questa prospettiva, infatti, la diversità e il riconoscimento del suo valore diventano elementi essenziali per una concezione più rispettosa della Terra e dell’umanità. Da qui l’appello di Moni Ovadia alla responsabilità di ciascuno, come singolo e come parte di una collettività su diversi fronti.
L’Uomo è un progetto aperto. L’Uomo non è né buono né cattivo, l’essere umano può albergare in sé moltissime possibilità: può toccare il sublime e può toccare l’infernale, non cambia; il problema è la via che si intraprende. Mentre il feldmaresciallo dell’aria Göring è stato uno dei più grandi criminali del secolo scorso, suo fratello ha salvato molti ebrei. Il problema è che noi non possiamo permettere ad un numero ristretto di uomini di affermare un cammino di relazione con il mondo. A quale titolo le grandi fortune economiche possono pensare di condizionare lo sviluppo del pianeta? Sulla base di quale autorità? E’ chiaro che oramai il tempo della delega è finito, io credo sia arrivato il tempo dell’impegno collettivo. O ci muoviamo tutti o è la catastrofe.
Al monito finale, con cui si conclude il nostro incontro con Moni Ovadia, si ricollega uno dei punti focali dello spettacolo. Ulisse, forse il più umano tra i guerrieri achei e perciò il più moderno, nelle terzine dantesche pone al centro del suo discorso l’agire dell’uomo e il ‘coraggio di assumere il proprio destino’. Riflessione ricorrente in Dante, così come nella cultura ebraica, ripresa, seppur con esiti diversi, nella sentenza di uno dei Maestri protagonisti della vicenda miracolosa del forno di Akhnai: ‘la regola non è in cielo’. In questo racconto talmudico, noto anche per l’immagine finale del Santo Benedetto che sorridendo dice ‘I miei figli mi hanno sconfitto, i miei figli mi hanno sconfitto’, si sottolinea il valore della libertà e della consapevolezza degli uomini: ricevuta la Legge, essi sono chiamati a metterla in pratica sulla terra in autonomia senza possibili deleghe.
Il lungo viaggio dell’umanità, come quello di Ulisse, può riservaci quindi meravigliose sorprese se avremo la forza di decidere con quel senso di responsabilità al quale spesso si è abdicato in nome di falsi valori, di cambiare rotta quando necessario, di andare senza paura al di là delle colonne d’Ercole dell’ingiustizia, del pregiudizio e della violenza.