In ricordo di Maria Repetto della Cascina Merigo
In ricordo di Maria Repetto della Cascina Merigo, che ci ha lasciati sabato 3 settembre 2022, viene ripubblicato l’articolo comparso sulla rivista Le guide-n.3 “Appennino Piemontese” di Piemonte Parchi (p. 82).
A Maria, memoria storica di Capanne e figura indimenticabile per l’Ecomuseo di Cascina Moglioni, rivolgiamo un ultimo saluto e un sentito ringraziamento per aver aver condiviso con noi parte del suo cammino.
Cascina Merigo
Dove ogni cosa ha il suo tempo
Dopo il Passo degli Eremiti, la strada per Capanne di Marcarolo si fa coraggiosa. Corre alta sulla gola del Gorzente, sfida le rocce in bilico del Tobbio e, come in una sorta di percorso iniziatico, costringe il viaggiatore a momenti di apprensione. Passato il guado del Ponte Nespolo e attraversata una galleria di fronde di faggio, la Cascina Merigo, due tetti spioventi tra il verde
dei prati, appare all’improvviso, nella parte più alta di una lieve pendenza. Salendo ancora, i pascoli, gli orti, i boschi e più lontano i monti, aspri e severi, ricreano atmosfere bucoliche simili a quelle celebrate dai poeti latini come antidoto alla vita frenetica della città, richiamano racconti mitici di pastori-filosofi, dediti alle greggi e alla poesia, cultori della vita semplice e autentica. Giochi di luci, colori, suoni, profumi che cambiano con il trascorrere ciclico dei mesi. Giorni bianchi e silenziosi, giorni variabili, incerti, di vento forte e di cumuli vaporosi, giorni di cieli azzurri, di canti e di richiami, giorni di nebbia fitta, immagini sempre diverse di un paesaggio incantevole nato da un lungo connubio dell’uomo con la natura. Merigo. Terre sospese tra selvaggio e coltivato, tra passato e presente che evocano nella memoria una condizione ormai perduta e risvegliano un primordiale senso di appartenenza. Fra queste distese di campi da sfalcio e di
faggete, dove il vento è costante, dove predominano le infinite gradazioni del verde, i pensieri si placano, la mente si libera, gli animi mutano e, d’un tratto, riemerge un’umanità nuova, governata non più dalle leggi del profitto, ma dal tempo. Qui, infatti, ogni cosa ha un suo tempo: le erbe, i fiori, gli alberi, gli animali, l’uomo. Mani guidate da una secolare saggezza operano sull’ambiente con rispetto ed equilibrio. La civiltà tecnica, con le sue manie di dominio sullo spazio e di esaltazione della velocità, non è arrivata su queste montagne, regno della categoria temporale. Maria e Giovanni, i contadini della cascina, hanno imparato a seguire i ritmi della natura. Lavoratori infaticabili, hanno passato anni duri ma ricchi di incontri e di condivisione. Sanno che c’è un tempo per lavorare e che c’è un tempo per riposare, per stare con gli altri.
All’arrivo di un visitatore, i due fratelli lasciano le loro attività e si affrettano ad accoglierlo, accanto alla stufa della cucina o all’aperto, nell’aia, secondo la stagione.
Da loro l’ospitalità è un rito antico ancora praticato. Lei è silenziosa, discreta, interviene di rado nelle conversazioni. Lui è abilissimo narratore di storie di ieri e di oggi. Entrambi hanno un sottile senso dell’umorismo che traspare, di tanto in tanto, dalle brevi battute pronunciate in un difficile dialetto. Consapevoli del ruolo che all’uomo è stato assegnato sulla terra, danno il giusto valore a ciò che accade e a ciò che li circonda. La tranquillità dei loro visi riflette la pace del luogo e, di fronte a tanta bellezza e a tanta serenità, tutto rallenta: il respiro, il cuore, le azioni e così lontani, insignificanti appaiono, allora, gli umani affanni della civiltà postmoderna.